Straniero è colui che è lontano e contemporaneamente vicino. Georg Simmel agli inizi del secolo scorso condusse una fondamentale analisi della categoria di straniero. La prima caratteristica che Simmel attribuisce allo straniero è l’idea di viaggio senza fine: lo straniero è, per definizione, colui che ha iniziato un viaggio che non terminerà mai. La seconda caratteristica è il disagio, il senso di “altrove”, di non familiare, che la condizione di straniero evoca.
In effetti Xenos, il termine greco che significa “straniero”, indicava anche ciò che non è familiare, quello che si descrive in tedesco con il termine unheimlich. All’ unheimlich – il perturbante, secondo la traduzione italiana – è consacrato un breve e affascinante scritto di Sigmund Freud del 1919. Da dove deriva, si domanda Freud, la sensazione di "“perturbante” provocata da alcune opere d’arte? La sua conclusione è che perturbante è ciò che un giorno ci fu familiare e oggi abbiamo scordato. Il perturbante, insomma, è il negativo della nostalgia.
Nostalgia, letteralmente “il dolore per il ritorno”, è una forma della memoria. La memoria è un evento dinamico: non è il memoriale, il meccanico riaffiorare di ricordi, ma è l’anamnesi, cioè attività che spiega e modifica il presente. La memoria è uno strumento attraverso cui rileggiamo in continuazione la nostra vita e orientiamo le nostre scelte. Quindi la memoria è l’opposto del supermercato multiculturale dove oggi viviamo, in cui tutto è uguale e in ogni momento presente. I migranti di oggi - gli stranieri che “invadono” le nostre terre –spesso non conoscono più la nostalgia. Il mondo di Instagram, Starbuks, Pizza Hut, dove un guerrigliero afgano e Chiara Ferragni indossano le stesse scarpe da ginnastica, ha fatto perdere a loro e a noi, la memoria. Nulla ci è più veramente lontano. Ci resta solo l’ immagine riflessa della nostalgia: il perturbante.
Si chiamava
Moammed Sceab
discendente
di emiri nomadi
suicida
perché non aveva più
patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.
(G.Ungaretti, 1916, In memoria)
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