In molti si sono divertiti con il gioco proposto nel mio precedente articolo “E tu di che COVID sei?”. Non sono mancate, com’è giusto, anche le critiche, ma, in generale, mi sembra che sia stato raggiunto l’obiettivo: ragionare insieme – con un sorriso, eppure seriamente - sull’impatto psicologico della pandemia. I vostri commenti mi hanno insegnato tantissimo, per cui vorrei iniziare questo secondo articolo ringraziandovi. Vi devo poi delle risposte.
Alcuni mi hanno domandato a che gruppo appartenesse chi ha trovato un po’ di sé stesso in tutti i tipi: forse a quello dei patofobi, infatti è caratteristico dei patofobi scoprire in sé ogni sintomo di cui leggono. Altri si sono interrogati su cosa significasse non ritrovarsi in nessun tipo: la mia classificazione non era esaustiva e quindi è normale che taluni non si siano riconosciuti, però - come hanno notato i lettori più astuti - tra costoro c’è probabilmente anche chi è stato particolarmente infastidito dalle mie descrizioni. Infine, in parecchi mi avete chiesto quale sia il modo psicologicamente più sano per affrontare la pandemia. Questa domanda mi interessa molto, non tanto perché pensi di avere una risposta (anche se proverò a rispondere), quanto perché credo di sapere quali siano le risposte sbagliate dalle quali tenersi lontano.
La prima risposta sbagliata è credere che una reazione psicologicamente sana risulti da una serie di comportamenti da insegnare e acquisire. Siamo tutti divertiti da articoli come “Le tre regole da seguire per … “(essere efficienti sul lavoro, mantenersi in forma, andare d’accordo con il partner, non sprecare il proprio tempo, eccetera) e io stesso ho intitolato quest’articolo per richiamare la vostra attenzione (e prendermi in giro da solo). Raramente il problema delle liste è essere sbagliate: è che se uno fosse capace di seguirle non ne avrebbe bisogno. Da adolescente comprai un libricino che spiegava come superare la timidezza con le ragazze: la prima regola recitava “guarda la ragazza in faccia e mostrati risoluto con lei”. Bella forza, ma se fossi stato capace di farlo non avrei mai comprato quel manuale! Persino quando le persone riescono a imporsi alcune regole, se non cambiano intimamente, prima o poi ricascano nei comportamenti del passato. È inutile fornire liste di comportamenti per fronteggiare psicologicamente la pandemia. L’ansioso, che ha necessità di controllare le notizie in continuazione, o il depresso che fantastica scenari catastrofici, potranno forse contenersi per un qualche tempo, ma poi, inevitabilmente, ricadranno nelle loro condotte “patologiche”. Chi non riesce a cambiare i propri comportamenti non soffre di una debolezza della volontà, come si pensa comunemente, quanto piuttosto di una duplicità di voleri, di cui uno solo cosciente. Nel lungo periodo la volontà inconscia quasi sempre prevale e si finisce non solo sconfitti ma anche più “malati” di prima (questo fenomeno è ben conosciuto nelle diete dimagranti ma vale per molti altri comportamenti che tentiamo di cambiare affidandoci solo alla “forza di volontà”) (Mordini 2002). Il consiglio generale che mi sento di dare è di evitare il più possibile i bracci di ferro con sé stessi, sono pericolosi per la salute mentale e quasi mai terminano con la vittoria della volontà cosciente. Con i propri “vizi” bisogna imparare a giocare d’astuzia e, quando è il caso, curarne le radici profonde.
La seconda risposta sbagliata è quella di ritenere che una reazione al COVID sia tanto più sana psicologicamente quanto più è conforme alle “verità scientifiche”. Ivan Illich ha dedicato pagine fondamentali ai rischi politici e sociali connessi alla medicalizzazione del dissenso e alla trasformazione di punti di vista legittimi (magari fondati su sciocchezze ma non per questo di pertinenza medica) in malattia (Illich 1975). Purtroppo, sono usciti recentemente due articoli che commettono questo errore. Il primo - apparso su JAMA e firmato dal direttore del centro demenze della UCSF, Bruce L. Miller (Miller 2020) - ha avuto in Italia una qualche notorietà dopo essere stato ripreso da televisioni e quotidiani. Ridotto all’essenziale, l’argomento di Miller ha la struttura di un sillogismo: 1) tutti i dementi soffrono di false credenze; 2) i “negazionisti” del COVID hanno false credenze; 3) i “negazionisti” sono dementi. Il ragionamento è sconcertante per il suo essere palesemente invalido perché commette un errore logico grossolano. I sillogismi sono dimostrazioni il cui schema generale è: 1) A possiede la qualità Y, 2) B fa parte di A, quindi 3) anche B possiede la proprietà Y. Cosa fa invece Miller? Prende due insiemi (dementi e negazionisti), attribuisce ad entrambi un’uguale proprietà (avere false credenze) e ne deduce che un insieme (negazionisti) fa parte dell’altro (dementi). Sarebbe come dire: 1) tutti i gatti rossi amano il caldo, 2) tutti i professori universitari amano il caldo, dunque 3) tutti i gatti rossi sono professori universitari. Fosse stato uno studente della Sorbona ai tempi di San Tommaso, Miller sarebbe stato cacciato a pedate.
Il secondo articolo è più astuto: apparso su Lancet e firmato da due psicoanalisti, Austin Ratner e Nisarg Gandhi, non entra in merito a credenze vere o false, quanto al problema della non aderenza ai consigli medici (Ratner and Gandhi 2020). I due autori argomentano che le varie forme di “negazionismo anti COVID” sarebbero forme di diniego della realtà, cioè reazioni di tipo psicotico dinanzi ad un evento percepito come minaccioso ed intollerabile. Ora, non c’è dubbio che fenomeni di diniego occorrano tra i cosiddetti “negazionisti”, ma lo stesso avviene anche nel campo opposto. Come accennavo nell’articolo precedente, ci sono molte forme di diniego: c’è, ad esempio, quello di coloro che sovrappongono i propri modelli matematici alla realtà; c’è quello di chi percepisce l’epidemia solo come occasione per uno scontro tra opposte fazioni; e così via. Molti “negazionisti” hanno punti di vista bizzarri e scientificamente inconsistenti, ma non hanno di necessità strutture mentali di tipo psicotico. Tutte le forme di “psichiatrizzazione” dell’avversario sono fattualmente sbagliate ed eticamente inaccettabili. Cretini, ignoranti e mascalzoni - a qualsiasi parte in campo appartengano (e ve ne sono in tutte) – hanno l’elementare diritto di essere chiamati per quello che sono, senza ricorrere allo stigma di diagnosi mediche o psicoanalitiche.
Proverò ora a rispondere su come, secondo me, si possa affrontare in modo “sano” l’epidemia di COVID. Lo farò con l’esempio di tre personaggi del teatro in musica.
Il primo personaggio lo si ritrova nel “Flauto Magico” di Mozart: è Monostato, un moro brutto, lascivo e violento, che tiene prigioniera la bella Pamina, cercando di approfittare di lei. Pamina riesce a fuggire, con l’aiuto di Papageno, ma il perfido li insegue e li riacciuffa. Tutto sarebbe perduto se Papageno non si ricordasse del suo glockenspiel fatato e non lo facesse suonare. Al suono dei magici campanellini, Monostato e i suoi sgherri si trasformano, cominciano a ballare felici e, volteggiando nella danza, cantano “Das klinget so herrlich, Das klinget so schön! Nie hab’ ich so etwas Gehört und gesehn!” (Suona così bene, Suona così bello! Mai nulla di simile ho udito né veduto!). La musica ha prodotto un miracolo: magari solo per pochi secondi, la bellezza ha vinto il male. Questa epidemia è stata - ed è - anche un’epidemia di bruttezza. Sono brutti e fanno male i ghigni soddisfatti dei giornalisti e la morte esibita in televisione; i volti coperti dalle mascherine e le mani avvolte in tristi guanti monouso; i bambini intimoriti e distanti l’uno dall’altro all’entrata di scuola e i banchi vuoti dei ragazzi più grandi; le notti buie e silenziose, vuote di gente e con le vetrine spente; i teatri, le sale da concerto, i cinema chiusi; i pronto soccorsi affollati, i malati sulle barelle; gli scafandri bianchi di medici e infermieri ed i loro “selfie”; gli anziani abbandonati nelle RSA e le persone che muoiono senza nessuno che tenga loro la mano, circondate da lugubri macchine celibi.
Questa grande bruttezza avvelena tutti, almeno quanto un virus: è un miasma che penetra nelle ossa e nella mente e ci fa ammalare psicologicamente e ci indebolisce fisicamente. Per fortuna, però, la vita è piena anche di innumerevoli instanti di bellezza. Monostato insegna che si è forti quando si è deboli, che non si deve perseverare – provandone un sottile piacere - nell’odio, nella stizza, nelle fantasie morbose. Bisogna lasciarsi vincere dalla bellezza, riconoscerla quando la si incontra: negli occhi di un passante, nelle parole di un amico, nel gioco di un bambino, in una musica udita in lontananza, nel buffo zampettare di un pettirosso.
Il secondo personaggio è Cenerentola, la protagonista dell’opera di Rossini, ispirata alla fiaba di Perrault. Rossini è più disincantato dello scrittore francese e la sua Cenerentola è meno zuccherosa, più ironica e, allo stesso tempo, più melanconica e poetica. Queste caratteristiche le donano una coloritura particolare: la Cenerentola rossiniana spera ma non si illude, confida che il suo sogno si avveri ma è consapevole della condizione del suo presente. Per due volte, all’inizio e alla fine dell’opera, Cenerentola canta una tenerissima cavatina su un’aria struggente di barcarola: le parole null’altro sono che la sua storia e la trama stessa dell’opera “Una volta c’era un re / Che a star solo che a star solo s' annoiò / Cerca, cerca ritrovò! / Ma il volean sposare in tre. /Sprezza il fasto e la beltà, / E alla fin scelse per sé / L'innocenza e la bontà.” Cenerentola canta la nostalgia del futuro: nella nostalgia del futuro sta il segreto della speranza. Se il paragone non fosse sproporzionato, della Cenerentola di Rossini si potrebbe dire ciò che l’autore della Lettera agli Ebrei dice di Abramo “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. Sperare contro ogni speranza è ciò di cui tutti avremmo sempre bisogno. Si tratta di una virtù che è stata espressa in vari modi, a partire da Virgilio, che immagina Enea incitare i suoi compagni con le parole “una salus victis, nullam sperare salutem” (Eneide, II, 354), sino a Gramsci che, nei Quaderni dal carcere, fa una notazione che vale oggi rileggere “Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà” (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. Torino, Einaudi, 1975, p.2330-1). La speranza non disegna grandi scenari, non ha fretta e nemmeno dona certezze incrollabili: è, invece, la nostalgia - umile, paziente, sorridente - di ciò che verrà. È la virtù che anche questa rubrica, “Pillole di ottimismo”, cerca di tenere in vita.
Il terzo personaggio è Falstaff, il protagonista dell’opera verdiana. Il Falstaff di Verdi è un vecchio grasso e ribaldo, un cavaliere sempre squattrinato e afflitto dagli anni, ma che è ancora ghiotto di vita, cibo, vino e donne. È un fanfarone vanaglorioso, dedito alla crapula, che ha tuttavia dalla sua il fatto che non si prende mai troppo sul serio. Quando diventa vittima di una burla architettata dai suoi compari di baldorie, vi casca in pieno; eppure nel momento in cui si scopre l’inganno, il vecchio ubriacone non si adombra: ne ride insieme agli altri e invita tutti a fare altrettanto, intonando la frase “tutto nel mondo è burla, l’uomo è nato burlone”, che diventa il soggetto della fuga finale, uno dei finali più affascinanti e straordinari nella storia della musica. Il coro sulla scena ripete la frase di Falstaff, le voci crescono, si sovrappongono, si rincorrono in un precipitare vorticoso in cui tutti ridono, brindano e cantano. Poi ecco il secondo soggetto “l’uom è nato burlone, la fede in cor gli ciurla, gli ciurla la ragione” e poi un terzo, che cresce lentamente in sottofondo, “tutti gabbati, tutti gabbati”; improvvisamente, la fuga si arresta, il coro e l’orchestra tacciono, gli attori sul palcoscenico si fermano, solo Falstaff, che si rivolge ora al pubblico in sala, ripete lentamente, quasi scandendo con voce grave, “tutti gabbati” a cui il coro fa eco, con uguale lentezza, quasi in lontananza; una nuova pausa e poi, di colpo, esplode daccapo la musica, in un turbinio giocoso di voci e di strumenti che chiude l’opera. Saper ridere di sé e degli altri, non prendere sé stessi mai troppo sul serio pur sapendo che la vita, invece, può essere terribilmente seria, è una delle arti più difficili da apprendere e praticare. Non c’è, tuttavia, che quest’arte a salvare gli esseri umani dai pericoli sempre incombenti dell’arroganza e della stupidità. Quanti errori – e quanto dolore – si sarebbero potuti evitare nel corso di questa epidemia se tutti, ciascuno per ciò che gli competeva, fossimo stati più capaci di ridere di noi stessi e ci fossimo presi un po’ meno sul serio.
Le mie tre piccole regole per non soccombere allo stress da COVID sono quindi: 1) lasciarsi catturare dai momenti di bellezza di ogni giorno, cercando di non cedere al fascino morboso del brutto e della morte; 2) essere ottimisti con umiltà, pazienza e lucidità, evitando sia l’esaltazione scriteriata, sia la disperazione; 3) non prendersi mai troppo sul serio e saper ridere di sé e degli altri, pur sapendo che la vita è una faccenda seria. Come dicevo all’inizio, credo che nessuno riuscirà mai a rispettare queste regole imponendosele. Gli psicoanalisti hanno, però, un vantaggio rispetto agli scienziati: possono fare affermazioni che non sono sempre suffragate da robuste prove. Così – pur sapendo che l’evidenza sembra dire il contrario – io affermo che al fondo di ogni uomo, magari coperto da cumuli di spazzatura vi è però un glockenspiel fatato. Provate a cercarlo anche voi:
1) Monostato: https://youtu.be/lfWBjxzXPsw 2) Cenerentola: https://youtu.be/hFEbkWdztAw 3) Falstaff: https://youtu.be/xb7-3VUESW0?list=RD5Lwn-LfdI38
Referenze Illich, I. 1975. «The medicalization of life.» Journal of Medical Ethics 1: 73-77.
Miller, BL. 2020. «Science Denial and COVID Conspiracy Theories: Potential Neurological Mechanisms and Possible Responses.» JAMA. doi:10.1001/jama.2020.21332.
Mordini, E. 2002. «La debolezza della volontà.» Annali dell’Istituto Superiore di Sanità 38 (3): 223-232.
Ratner, A., e N. Gandhi. 2020. «Psychoanalysis in combatting mass non-adherence to medical advice.» The Lancet. doi:https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)32172-3.
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