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Immagine del redattoreEmilio Mordini

BAMBINI ED ANZIANI DINANZI AL COVID

Aggiornamento: 24 ago 2022


Chi osservi le reazioni delle persone in questo lungo periodo di pandemia rimane colpito dal fatto che le due categorie di età più estreme – bambini ed anziani - stanno reagendo in un modo quasi analogo: con una carica di angoscia, non solo di paura, inspiegabile, tanto è violenta e pervasiva e indipendente da ogni pur legittima preoccupazione.


I bambini, specialmente quelli appena giunti in età scolare, sono spaventati da ogni rapporto ravvicinato, ossessivamente attenti al distanziamento sociale, preoccupati al di là di ogni ragionevolezza dal rischio di infettare gli adulti. Si percepiscono come pericolosi e temono di fare male agli altri con la loro semplice presenza (naturalmente non tutti i bambini soffrono di simili timori, però si tratta di una situazione abbastanza frequente).


La situazione di molti anziani è esattamente speculare. Sono angosciati non dal rischio di infettare, come i bambini, quanto da quello di essere infettati: immersi in uno stato di perenne timore, non escono quasi più di casa, hanno abolito ogni forma di vita sociale e ridotto al minimo indispensabile i contatti con il mondo. Questi anziani si sentono minacciati da un pericolo incombente e onnipresente, da una forza malefica ed invisibile che attende soltanto l’occasione propizia per colpirli.


Apparentemente si tratta, in entrambi i casi, di un’amplificazione di timori trasmessi socialmente: nel caso dei piccoli, quello di essere veicolo di malattia; nel caso degli anziani, quello di essere più sensibili all’infezione e alle sue conseguenze, persino mortali. L’angoscia che entrambi i gruppi manifestano è, però, segno che la paura per la malattia ha assunto un valore simbolico che va oltre il mero dato di fatto, per coinvolgere strati più profondi della mente.


La psicoanalisi spiega angosce così profonde nei bambini con la presenza di impulsi di rabbia ed aggressivi nei confronti di chi si prende cura di loro. Il bambino percepisce dentro di sé questi moti oscuri del suo animo: da un lato non si sente in grado di padroneggiarli, dall’altro avverte che se realizzasse queste sue fantasie farebbe del male a chi lo ama e che lui, nonostante le sue rabbie, pure ama. Questo è il momento in cui l’adulto deve farsi percepire forte, non aggredibile, perché solo in questo modo può rassicurare il bambino che le sue fantasie non potranno realizzarsi e i suoi incubi di morte rimarranno solo “brutti sogni”. Con l’epidemia di COVID, però, il bambino non trova più un argine a fermarlo, al contrario gli adulti lo confermano nella sua paura che lui potrebbe davvero uccidere le persone che ama. Così il piccolo, invece di essere aiutato a padroneggiare la propria angoscia, è gettato in pasto ad essa.


Nei vecchi c’è, invece, un aspetto di sospettosità con sfumature paranoiche che è tipico dell’età anziana, un periodo in cui non è raro temere di essere derubati proprio perché si percepisce chi si sta inesorabilmente perdendo l’unico bene che davvero conta: il tempo da vivere. Questo tempo è spesso rappresentato dal denaro: ecco, dunque, lo stereotipo dell’anziano avaro e sospettoso. Con il COVID, il messaggio che giunge ai vecchi è che i giovani, ricchi ancora di anni di vita, potrebbero rubare loro, contagiandoli, gli ultimi scampoli di esistenza. Questi anziani allora, come nei miti o nelle fiabe, indossano la “mascherina” e si trasformano in draghi per proteggere l’ingresso della grotta dove serbano il loro piccolo tesoro di anni e di tempo.


Oltre, però, queste osservazioni psicologiche molto semplici, c’è un altro fattore che, secondo me, determina l’angoscia da COVID in bambini ed anziani ed è la solitudine. Non è facile definire cosa sia la solitudine: non è né isolamento fisico né semplice lontananza emotiva. La condizione di essere fisicamente soli può addirittura essere una situazione di pienezza e felicità (“Beata solitudo, sola beatitudo” recita un motto che si può ancora leggere sulle porte di qualche antico monastero) ed un certo distacco emotivo dal mondo è sempre stato lodato da tutti i saggi. La “solitudine” è il sentimento doloroso di “essere solo”, che può cogliere chiunque, in ogni momento. È una sorta di vertigine angosciosa che non dipende dall’essere o meno in compagnia (si parla, infatti, anche di solitudine delle masse e non è raro che questa esperienza nasca in situazioni affollate come, ad esempio, in metropolitana), piuttosto è una sensazione di vuoto interiore, di desolazione emotiva. Una delle più precise descrizioni è forse quella che ne fa Joseph Roth nelle ultime righe di “Fuga senza fine”: “Era il 27 agosto 1926, alle quattro del pomeriggio, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d'innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell'ora, il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo.


Ci si può sentire disperatamente soli e superflui a qualsiasi età: in questa nostra epoca sono, tuttavia, più spesso i bambini e gli anziani a fare questa dolorosa esperienza per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo affrontare ora. Segno, comunque, inequivocabile di una sensazione di solitudine incombente è la paura del silenzio. Se si osservano con attenzione bambini ed anziani, ci si accorgerà immediatamente che entrambi non sanno più sopportare il silenzio e lo riempiono di rumore elettronico: i bambini con l’onnipresente telefono cellulare, gli anziani con la televisione. Anche per molti adulti è abituale ricorrere immediatamente al cellulare per colmare i piccoli spazi di vuoto di cui la vita è intessuta. Basta osservare le persone in una sala di aspetto o in una fila: quasi nessuno riesce ad evitare di scorrere nevroticamente le immagini di un qualche social o le e-mail per “far passare il tempo”. Questa incapacità di tollerare l’attesa, senza doverla immediatamente inondare di “rumore”, è segno di una paura che non è solo di bambini ed anziani ma della maggior parte degli individui oggi. Gli adulti, però, hanno spesso una rete sociale che li salva dal piombare completamente in uno stato di stordimento digitale. Non altrettanto si può dire dei bambini che, sempre di più, non riescono a staccarsi dai loro telefoni cellulari. Qualcosa di simile accade anche agli anziani che però, per motivi legati all’età, usano come “rumore di fondo” i televisori, perennemente accesi nelle loro case ad impedire che si crei, anche per un’istante, il silenzio.


Vuoto e silenzio sono il modo in cui tutti noi tendiamo a raffigurare la morte: quando li avvertiamo incombere su di noi, cerchiamo scioccamente di fuggirli con furia e rumore. Così il mondo della comunicazione elettronica, dei social, dei televisori sempre accesi, ci illude di riempire il tempo dell’attesa e la nostra solitudine. Purtroppo, invece, la realtà digitale ha in sé proprio quel gelo che vorremmo fuggire: è come le ombre dell’Ade nel Libro XI dell’Odissea. L’oltretomba descritto da Omero è popolato da figure spettrali che, pur avendo la parvenza di viventi, non ne hanno la sostanza, la carne: sono – come le immagini che popolano internet – “presenze-assenti”. Quando Ulisse, mosso da profonda tenerezza, cerca di abbracciare la madre morta, incontra solo aria “E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava ad abbracciarla, tre volte dalle mie mani, all’ombra simile o al sogno, volò via” (Od.XI, 204-08). Noi usiamo la comunicazione elettronica per mitigare la sensazione di solitudine creata dalle misure di confinamento applicate per contenere l’epidemia, ma la comunicazione digitale crea a sua volta una profonda sensazione di solitudine e vuoto. Tutti, in particolare bambini ed anziani, sono colpiti da questa epidemia parallela, che sta silenziosamente mietendo ben più vittime del COVID e che è all’origine di gran parte dell’angoscia generata dalla malattia.


In questa situazione c’è una cosa fondamentale da fare, una misura essenziale di igiene psichica da prendere: bisogna radicalmente ridurre il carico di informazione e comunicazione elettronica che grava su ciascuno e, soprattutto, sui più fragili, bambini ed anziani. Proprio perché lo temono così tanto, le persone devono rieducarsi al silenzio. Non esiste solo il silenzio della morte, esistono anche forme di silenzio che sono più eloquenti di lunghi discorsi e più calde di un abbraccio. Una di queste è descritta nel Primo Libro dei Re. In questo libro si racconta del profeta Elia e di come fosse mandato nel deserto da Dio per sfuggire l’ira del re Gezabele. Elia segue un po’ ricalcitrate gli ordini del Signore, sinché non giunge ad un grande monte e qui: “Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?».” (1Re, 19,11-13).


Dio non parla nel tuono della tempesta, nell’urlo del vento o nel fragore del terremoto ma nel gentile e silenzioso fruscio di una brezza.


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