
Inizio con questo articolo una serie di post che saranno dedicati alla “debolezza della volontà”. Si tratta in buona parte della riedizione di un mio scritto del 2002, pubblicato originariamente dagli Annali Dell’ Istituto Superiore di Sanità [38(3):223-232]. Per quanto il testo originale sia ancora rintracciabile online, ho pensato che potesse essere utile pubblicarne una versione lievemente semplificata e aggiornata. La sua lunghezza mi ha obbligato, però, a spezzarlo in più parti: vorrà dire che i famosi 25 lettori che seguono ogni autore dovranno fare una fatica in più e attendere per leggere le conclusioni.
PRIMA PARTE. LE DIPENDENZE PATOLOGICHE
𝗜𝗹 𝘁𝗲𝗿𝗺𝗶𝗻𝗲 “𝗱𝗶𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗽𝗮𝘁𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗮” 𝗶𝗻𝗱𝗶𝗰𝗮 𝗾𝘂𝗮𝗹𝘀𝗶𝗮𝘀𝗶 𝘀𝗶𝘁𝘂𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗶𝗻 𝗰𝘂𝗶 𝘂𝗻 𝘀𝗼𝗴𝗴𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗲𝘃𝗲𝗿𝗶 𝗶𝗻 𝘂𝗻 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 nonostante che questa “abitudine” gli generi problemi significativi. Il termine inglese utilizzato è “𝘢𝘥𝘥𝘪𝘤𝘵𝘪𝘰𝘯”, una parola di derivazione latina che rende bene la realtà della dipendenza: il verbo 𝘢𝘥𝘥𝘪𝘤𝘦𝘳𝘦 nel diritto romano significava, infatti, “condannare a diventare schiavo”. La dipendenza è così un fenomeno in cui un soggetto diventa schiavo di qualcosa che gli è di danno.
𝗟𝗲 𝗱𝗶𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗲 𝗽𝗮𝘁𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗹𝗲𝘃𝗮𝗻𝗼 𝗹𝗮 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝘀𝗶𝗮 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝘂𝗻 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝘂𝗺𝗮𝗻𝗼 adotti un comportamento volontariamente autodistruttivo. Come mai una persona si impegna in un comportamento che sa danneggiarla? Perché inizia, perché non riesce ad interrompere, perché vi ricade anche dopo anni di astinenza?
𝗤𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝘀𝗶 𝗽𝗮𝗿𝗹𝗮 𝗱𝗶 𝗱𝗶𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗽𝗮𝘁𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗮 𝗹𝗮 𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗰𝗼𝗿𝗿𝗲 𝗶𝗻𝗲𝘃𝗶𝘁𝗮𝗯𝗶𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗮 “𝗱𝗿𝗼𝗴𝗮”. Droghe furono in origine le varie sostanze “esotiche”, per lo più di origine vegetale, che erano vendute da speziali e farmacisti per uso sia alimentare sia medicinale. Le “droghe” venivano vendute sia sciolte, sia in preparazione: ad esempio nel Settecento il laudano era comunemente preparato lasciando in infusione in vino semi di papavero, cannella, noce moscata e altre spezie. La preparazione e la vendita di queste pozioni non solamente era libera ma non era nemmeno di esclusiva pertinenza dei farmacisti. Solo verso la metà dell’Ottocento in Francia e in Inghilterra vennero promulgate leggi con lo scopo di impedire il libero commercio di alcune sostanze potenzialmente venefiche (l’obiettivo di queste leggi non era il controllo delle sostanze d’abuso ma prevenire i casi criminali di avvelenamento) riservandone ai farmacisti la produzione.
𝗦𝗶𝗻𝗼 𝗮𝗶 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗡𝗼𝘃𝗲𝗰𝗲𝗻𝘁𝗼, 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗮𝘃𝗶𝗮, 𝗶𝗹 𝗰𝗼𝗺𝗺𝗲𝗿𝗰𝗶𝗼 𝗱𝗶 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗲 𝗱'𝗼𝗴𝗻𝗶 𝘁𝗶𝗽𝗼 𝗿𝗶𝗺𝗮𝘀𝗲 𝗽𝗿𝗲𝘀𝘀𝗼𝗰𝗵𝗲́ 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝗼. Con l'avvento delle prime regolamentazioni, il termine droga, pur continuando a significare farmaco (come in inglese) o spezia (come in italiano), divenne anche sinonimo di sostanza d’abuso. Oggi, il consumo voluttuario delle sostanze d’abuso è in alcuni casi legale (ad esempio: alcol, caffeina, nicotina, tranquillanti minori), in altro illegale (ad esempio: oppiacei, cocaina, LSD), in altri casi ancora, e a seconda delle legislazioni, si colloca in una zona grigia semilegale (ad esempio in alcuni paesi la cannabis).
𝗜𝗻𝗶𝘇𝗶𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲, 𝘀𝗶 𝗽𝗲𝗻𝘀𝗼̀ 𝗰𝗵𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝗰𝗮𝗿𝗮𝘁𝘁𝗲𝗿𝗶𝘀𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗲 𝗹𝗲 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗲 𝗱’𝗮𝗯𝘂𝘀𝗼 𝗳𝗼𝘀𝘀𝗲 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗱𝗶 𝗮𝗹𝘁𝗲𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗶𝗹 𝗺𝗲𝘁𝗮𝗯𝗼𝗹𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗰𝗼𝗻𝘀𝘂𝗺𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲 in modo tale da creare una dipendenza fisica. Anche se ogni sostanza farmacologicamente attiva può divenire sostanza d’abuso (si parla ad esempio anche di “dipendenza” da lassativi), le sostanze che generano dipendenza fisica sono quasi sempre agenti farmacologici con effetti diretti sul sistema nervoso centrale. Tuttavia, fu presto notato che non tutte le sostanze d’abuso generavano dipendenza fisica. S’introdusse così il concetto di “dipendenza psicologica”, volendo indicare una situazione di forte legame emozionale alla sostanza, tale che il soggetto non riesce a interrompere l’autosomministrazione.
𝗔 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗽𝘂𝗻𝘁𝗼, 𝗽𝗲𝗿𝗼̀, 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗲 𝗶𝗹 𝗽𝗿𝗼𝗯𝗹𝗲𝗺𝗮 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗱𝗶𝗳𝗳𝗲𝗿𝗲𝗻𝘇𝗶𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗲 𝗱𝗶𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗲 𝗱𝗮𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗽𝘂𝗹𝘀𝗶𝘃𝗶. Ad esempio, come si deve considerare la bulimia, cioè l’assunzione di quantità eccessive di cibo? E l’uso compulsivo di internet e di videogiochi? E l’eccesso in alcune pratiche sportive (𝘫𝘰𝘨𝘨𝘪𝘯𝘨, 𝘣𝘰𝘥𝘺 𝘣𝘶𝘪𝘭𝘥𝘪𝘯𝘨) o nel lavoro (i 𝘸𝘰𝘳𝘬𝘢𝘭𝘤𝘰𝘰𝘭𝘪𝘤𝘴) o nell' attività sessuale (i 𝘴𝘦𝘹𝘢𝘥𝘥𝘪𝘤𝘵𝘴)? Qual è la differenza tra un eroinomane - incapace di interrompere l’uso dell’eroina, nonostante sia consapevole che questo abuso lo sta uccidendo - e un diabetico scompensato incapace di rispettare le prescrizioni alimentari? Esiste una vera differenza tra un giocatore che si rovina economicamente alle slot-machine e un cocainomane?
𝗗𝗮 𝘂𝗻 𝗽𝘂𝗻𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝘃𝗶𝘀𝘁𝗮 𝗺𝗲𝗱𝗶𝗰𝗼 𝗼, 𝗺𝗲𝗴𝗹𝗶𝗼, 𝗻𝗲𝘂𝗿𝗼𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗼, 𝘀𝗮𝗽𝗽𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗮𝗱𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗲 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗲 𝗱𝗶𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗲 𝘁𝗿𝗼𝘃𝗮𝗻𝗼 𝘂𝗻𝗮 𝘃𝗶𝗮 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗲 𝗻𝗲𝗶 𝘀𝗶𝘀𝘁𝗲𝗺𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗽𝗶𝗮𝗰𝗲𝗿𝗲 e della soppressione del dolore che agiscono nel sistema nervoso centrale. Sostanze e comportamenti raggiungono infine lo stesso scopo: la produzione nelnostro cervello di sostanze che sopprimono il dolore o provocano uno stato di piacere (la distinzione tra queste due condizioni è questione antica che ritroveremo spesso in questi articoli).
𝗟𝗼 𝘀𝗰𝗼𝗽𝗼 𝗱𝗶 𝗶𝗻𝗰𝗿𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗮 𝗾𝘂𝗮𝗻𝘁𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗲 𝗮𝗽𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝘁𝗿𝗶𝗰𝗶 𝗱𝗶 𝗽𝗶𝗮𝗰𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗹𝗹’𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝗮𝗹𝗰𝘂𝗻𝗶 𝗰𝗶𝗿𝗰𝘂𝗶𝘁𝗶 𝗻𝗲𝘂𝗿𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶, 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝗼𝘁𝘁𝗲𝗻𝘂𝘁𝗼 tramite l’assunzione di molecole direttamente attive sul sistema nervoso centrale (farmaci, droghe, ecc.) oppure correndo sino a sfiancarsi o avendo un gran numero di rapporti sessuali o mangiando all’eccesso o, al contrario, digiunando all’ estremo. La scelta di un modo o dell’altro dipenderà solo dalle circostanze di vita e dalle capacità del soggetto di reagire a diversi stimoli e di scegliere con cosa “drogarsi”.
𝗖𝗶𝗼̀ 𝗰𝗵𝗲, 𝗶𝗻 𝗱𝗲𝗳𝗶𝗻𝗶𝘁𝗶𝘃𝗮, 𝗱𝗲𝗰𝗶𝗱𝗲 𝗶𝗹 𝗱𝗲𝘀𝘁𝗶𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝘂𝗻𝗮 𝗱𝗶𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗲̀ 𝗹𝗮 𝘃𝗼𝗹𝗼𝗻𝘁𝗮̀ 𝗼 – 𝘀𝗽𝗲𝘀𝘀𝗼 𝘀𝗶 𝗽𝗲𝗻𝘀𝗮, 𝘀𝗯𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮𝗻𝗱𝗼 - 𝗹𝗮 𝘀𝘂𝗮 𝗺𝗮𝗻𝗰𝗮𝗻𝘇𝗮. I soggetti dipendenti vogliono e non vogliono esserlo; sono quasi sempre consapevoli dei danni fisici, psicologici e sociali a cui vanno incontro, ma, allo stesso tempo, non sono capaci di rinunciare al momentaneo piacere (o alla diminuzione di sofferenza) che ottengono. Il problema delle dipendenze non è un problema di mancanza di volontà, quanto il suo contrario. Nasce dal conflitto tra due volontà ugualmente forti: quella di perseverare nel proprio comportamento (a prezzo di pesanti conseguenze) e quella di interromperlo (rinunciando, però, a un piacere o a lenire una sofferenza).
𝗔 𝗯𝗲𝗻 𝘃𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲, 𝘀𝗶 𝘁𝗿𝗮𝘁𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗽𝗿𝗼𝗯𝗹𝗲𝗺𝗮 𝗽𝗼𝘀𝘁𝗼 𝗱𝗮 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝘂𝗻 𝗶𝗻𝗱𝗶𝘃𝗶𝗱𝘂𝗼 𝘃𝗼𝗿𝗿𝗲𝗯𝗯𝗲 𝗮𝗯𝗯𝗮𝗻𝗱𝗼𝗻𝗮𝗿𝗲 𝗼 𝗮𝗱𝗼𝘁𝘁𝗮𝗿𝗲 𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗿𝗶𝘂𝘀𝗰𝗶𝗿𝘃𝗶. Lo studente che, nonostante voglia con tutte le sue forze essere promosso, rimanda sempre il momento di aprire il libro; il diabetico che, consapevole di giocarsi la vita, non riesce a rinunziare a una fetta di torta; il giovane che, pur sapendo i rischi, non riesce a non assumere anabolizzanti per vedersi sempre più muscoloso negli specchi della palestra; la donna che, ben cosciente di ciò che sta facendo e pur non volendolo, finisce sempre per scegliere quei maschi che la umilieranno: sono solo pochi esempi che ci fanno dire che la questione delle dipendenze non è un affare per pochi specialisti, ma qualcosa che riguarda la libertà e volontà di tutti noi.
𝘐𝘰 𝘯𝘰𝘯 𝘳𝘪𝘦𝘴𝘤𝘰 𝘢 𝘤𝘢𝘱𝘪𝘳𝘦 𝘯𝘦𝘱𝘱𝘶𝘳𝘦 𝘤𝘪𝘰̀ 𝘤𝘩𝘦 𝘧𝘢𝘤𝘤𝘪𝘰: 𝘪𝘯𝘧𝘢𝘵𝘵𝘪 𝘯𝘰𝘯 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘷𝘰𝘨𝘭𝘪𝘰 𝘪𝘰 𝘧𝘢𝘤𝘤𝘪𝘰, 𝘮𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘦𝘵𝘦𝘴𝘵𝘰 (…) 𝘪𝘰 𝘯𝘰𝘯 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘪𝘰 𝘪𝘭 𝘣𝘦𝘯𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘷𝘰𝘨𝘭𝘪𝘰, 𝘮𝘢 𝘪𝘭 𝘮𝘢𝘭𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘷𝘰𝘨𝘭𝘪𝘰. 𝘖𝘳𝘢, 𝘴𝘦 𝘧𝘢𝘤𝘤𝘪𝘰 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘷𝘰𝘨𝘭𝘪𝘰, 𝘯𝘰𝘯 𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘱𝘪𝘶̀ 𝘪𝘰 𝘢 𝘧𝘢𝘳𝘭𝘰, 𝘮𝘢 𝘪𝘭 𝘱𝘦𝘤𝘤𝘢𝘵𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘢𝘣𝘪𝘵𝘢 𝘪𝘯 𝘮𝘦. 𝘐𝘰 𝘵𝘳𝘰𝘷𝘰 𝘥𝘶𝘯𝘲𝘶𝘦 𝘪𝘯 𝘮𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘭𝘦𝘨𝘨𝘦: 𝘲𝘶𝘢𝘯𝘥𝘰 𝘷𝘰𝘨𝘭𝘪𝘰 𝘧𝘢𝘳𝘦 𝘪𝘭 𝘣𝘦𝘯𝘦, 𝘪𝘭 𝘮𝘢𝘭𝘦 𝘦̀ 𝘢𝘤𝘤𝘢𝘯𝘵𝘰 𝘢 𝘮𝘦. (Rom. 7, 15-22)
Fine della prima parte (la seconda parte sarà pubblicata venerdì 11 ottobre)
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