Una delle più bizzarre conseguenze dell'epidemia di COVID-19 è stata l’irrompere della matematica e di modelli matematici nella vita quotidiana di molti cittadini. Persone che sino a ieri ignoravano la differenza tra numeri naturali ed interi, per cui le curve erano solo quelle sulle autostrade, discettano oggi sulla crescita esponenziale dei contagi. In parallelo, una miriade di studiosi, accademici e praticanti, si reputano epidemiologici solo perché in grado di usare un foglio di calcolo o utilizzare un programma informatico, pur non avendo mai visto in vita loro un malato infettivo che non fosse il nipotino con la varicella. Alcuni di questi studiosi manipolano i numeri con sapienza e costruiscono ipotesi credibili, almeno sino a che esse non sono smentite dai fatti: costoro sono i più pericolosi tra le categorie che ho appena elencato. Accecati da ciò che per davvero sanno, sono spesso travolti dalla presunzione e non si rendono conto di non conoscere molto e, soprattutto, ciò che sarebbe più importante per loro sapere. Credere che un’epidemia, la sua dinamica e il suo andamento, il suo senso e il suo impatto, le misure da prendere per contenerla, siano comprensibili principalmente attraverso modelli statistici è segno infatti di profonda e vasta ignoranza.
Il termine “epidemia” (ἐπιδήμιος) ha un’origine molto antica che affonda sino agli albori della cultura greca. È composto da ἐπί (epì) = sopra + δῆμος (dèmos) = popolo, ed indica, dunque, qualcosa che si manifesta nel popolo, alla comunità. Nei testi più arcaici non ha un significato medico: nell’Iliade πόλεμος ἐπιδήμιος (polemos epidemios) è la guerra civile; nell’Odissea, quando Ulisse torna a casa, tra il suo popolo, il poeta scrive ἐπιδήμιον εἶναι (epidemion einai), “essere a casa, tra la sua gente”. Curiosamente, anche l’apparizione di un dio all’intera comunità, quella che noi chiameremmo teofania, era detta in origine epidemia. La più antica opera letteraria della cultura occidentale, l’Iliade, si apre con un’epidemia, che è anche una teofania: quella che il dio Apollo, infuriato per l’offesa fatta ad un suo sacerdote, scaglia sull’accampamento dei greci che assediano la città di Troia. Il dio implacabile fa strage con le sue frecce di animali e uomini: “i muli colpiva in principio e i cani veloci, ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il, I, 50-53 trad. R.Calzecchi Onesti).
Leggendo l’inizio dell’Iliade ci si accorge che il poeta non parla di un male che si abbatte sul demos, ma sul laos: “ὃ γὰρ βασιλῆϊ χολωθεὶς νοῦσον ἀνὰ στρατὸν ὄρσε κακήν, ὀλέκοντο δὲ λαοί” (“egli, irato con il re, mala peste fe’ nascer nel campo, la gente moriva”, Iliade, I, 10, trad. R.Calzecchi Onesti). Non si tratta, come si potrebbe pensare, di un arcaismo quanto di un diverso significato tra i termini. Sia laos (λαός) sia demos (δῆμος) significano popolo, ma c’è una profonda differenza tra i due. Nell’Iliade e nell’Odissea, i re sono spesso chiamati pastori del laos, il popolo è cioè equiparato a un gregge. I Greci distinguevano tra popolo-comunità, che esiste in quanto insiste su un territorio ed è unito da legami di cultura e sangue (il demos), e invece il laos, una turba che si riunisce momentaneamente sotto il comando di un capo che la guida. La prima epidemia della storia dell’Occidente fu quindi il precipitare dell’ira del dio su un gregge di uomini, su una moltitudine di guerrieri ed animali, non su un demos. Bisognerà aspettare Tucidide e Ippocrate per avere rappresentazioni di epidemie nel senso moderno del termine, che colpiscono il demos.
La distinzione tra laos e demos è quella che gran parte degli epidemiologi ignorano e che li porta a illudersi che un modello matematico possa permettere di comprendere un’epidemia. I modelli matematici non si rivolgono al demos ma al laos. Si possono costruire, naturalmente, anche modelli molto complessi, che tengano conto di variabili sociali e culturali, ma inevitabilmente tutti i modelli si basano su un semplice concetto: esistono esseri umani che si muovono più o meno erraticamente, entrano in reciproco contatto e si trasmettono l'un l'altro (direttamente o tramite vettori) un agente patogeno. Ridurre, però, un’epidemia alla trasmissione di un agente patogeno è un po’ come cercare di capire un madrigale attraverso la biochimica dei ferormoni. Certo, tutto è interconnesso e non c’è conoscenza che sia completamente inutile, che non possa servire a scoprire nessi inaspettati, tuttavia il demos è qualcosa di infinitamente più ricco e complicato del laos proprio perché non è espressione di un’aggregazione animale ma il frutto di un’evoluzione culturale (ammesso che le greggi siano strutture semplici e non anch'esse straordinariamente complesse).
L’ira di Apollo che colpisce il laos dei guerrieri è ancora un fatto puramente biologico; la peste di Atene è invece un evento politico, perché riguarda la vita collettiva delle persone, i loro valori, le loro scelte, i loro progetti sul futuro, il destino stesso dell’Ellade. Quando gli epidemiologi studiano il popolo come fosse un laos, finiscono inevitabilmente col considerare quale unico valore collettivo la sopravvivenza: sfuggire al contagio, evitare la morte, reale o immaginata che sia. Se questa narrazione fosse vera, non si capirebbe però più nulla del mondo: non il sacrificio di Leonida ma nemmeno lo scudo di Archiloco.
I modelli matematici, come molti altri strumenti, possono essere utili per comprendere la realtà, ma non sono il principale strumento per decifrare le epidemie. La riduzione del demos a laos è un grave errore concettuale che guida spesso verso scelte sbagliate.
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