Ogni lingua, ci dicono i linguisti, è un essere vivente, soggetto a una sua propria dinamica e in continua evoluzione. Quando si impone l’uso improprio, o grammaticalmente sbagliato, di un vocabolo, non vale protestare e opporsi più di tanto perché quello che fu un tempo ritenuto errore è servito evidentemente a colmare un vuoto che si era creato nella lingua.
In italiano, ad esempio, il verbo “vivere” dovrebbe essere usato solo intransitivamente e il suo uso transitivo – “vivere un’esperienza”, “vivere un sentimento”, “vivere una parte”– era considerato sino qualche anno fa errore blu. Oggi, con ben poche eccezioni, tutti i migliori dizionari giudicano legittimo l’uso transitivo di questo verbo. Chi ha sempre guardato con disprezzo coloro che “vivevano un’emozione” o “vivevano il loro ruolo di genitore” può pure mettersi il cuore in pace: la battaglia è perduta e l’italiano si è allineato al francese dove, da molto tempo, l’uso transitivo di vivre è pienamente accettato.
Il verbo latino vivo, da cui derivano le forme italiane e francesi, era in effetti solo intransitivo, riflettendo l’etimologia indoeuropea che proviene da una radice verbale “*gʷeu-“ con il significato di muoversi ripetutamente. Questa radice la si ritrova in vocaboli usati per designare il gregge o la mandria. In origine, la qualità di essere vivente fu probabilmente connessa al continuo girovagare degli animali al pascolo, che li distingueva dagli altri elementi della scena, alberi, arbusti, sassi: immobili oppure mossi da forze esterne come il vento. L’uso transitivo di questo verbo non ha dunque molto senso, almeno etimologicamente parlando. Potrebbe mai il “muoversi” descrivere un’ azione che passa dal soggetto al complemento oggetto, secondo la definizione canonica di verbo transitivo? L’azione di chi si muove non si trasferisce fuori ma, al contrario, ritorna sul soggetto.
Confesso, tuttavia, che non è mai stata la ricerca della purezza etimologica a provocare in me indignazione, quanto, piuttosto, una reazione viscerale nei confronti di coloro che “si vivevano” le cose. Ho sempre mal tollerato il cattivo uso del verbo “vivere” di moda in un demi-monde psicologico di sinistra, spesso con radici cattoliche scoutistiche o colorato di tinte femministe: lo stesso in cui negli anni 1970 andavano di moda i piccoli gruppi e i gruppi di autocoscienza tra donne. Quel mondo, così ben descritto da Giorgio Gaber, ha vinto. Se però oggi tutti usano il verbo “vivere” con il senso di “condurre, fare, godere, immedesimarsi, passare, provare, sperimentare, trascorrere” vuol anche dire che le persone avevano necessità di questo nuovo significato.
All’origine il verbo “vivere”, come molti verbi intransitivi, ammetteva solo un oggetto interno, cioè un’unica occasione in cui lo si poteva usare transitivamente: con il vocabolo “vita”. “Si vive una vita” ma non “si vivono gli avvenimenti” di una vita. C’era in questa unicità di oggetto una profonda lezione: la vita è un evento straordinario, stupefacente, e solo la ”vita” stessa ha la dignità, la sacralità, per essere vissuta. Gli eventi contingenti si possono consumare, godere, esperire, ma non “vivere”. Se si usa lo stesso vocabolo per indicare l’esperienza che si fa della vita e quella che si fa della miriade di effimeri fatti che la compongono, vuol dire che si percepisce la vita come semplice somma di questi. È quanto ormai è accaduto: tutte le nostre vite non hanno più un senso unitario in quanto vita, non hanno più una loro pienezza indipendentemente dalla contingenza, ma sono un assemblage di episodi, di desideri ed emozioni del momento, a malapena tenuti insieme da identità sempre più traballanti.
Noi “ci viviamo” tutto perché, purtroppo, viviamo sempre meno.
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